#01 Vito Acconci

il

#LARTERESISTE

 

I Visionari

 

Vito Acconci

 

There was a man here, but he’s disappeared as you look 
There was a dog there, but he’s vanished as you watch
There was a rock here, but now it’s gone, as you see
There was a street here, but it’s not, you keep looking 
There is a notice here – – there is one now – – of bouncing away,
There is information about the vanishing point of the street. One *

 

Vito Acconci muore a Brooklyn all’età di 77 anni, in difficoltà finanziarie. Difficoltà a cui ha contribuito senz’altro il suo particolare carattere – I can’t stand gallerists.They always ask me for something to sell – ma certamente anche un sistema dell’arte miope e convenzionale. Acconci era ben consapevole infatti che nel frattempo il secondo mercato vendeva i suoi lavori, spesso smembrati e irriconoscibili, senza che lui potesse beneficiarne o bloccarli in alcun modo.
Nel 1988 aveva fondato uno studio di architettura, Acconci Studio, con l’idea di creare un gruppo che lavorasse a spazi pubblici, aperti al dialogo con la gente; si è ritrovato nell’ultimo paio d’anni a confrontarsi con se stesso in un grande studio vuoto.
Anche questo dipenderà in buona parte da lui, dal forte sentimento critico nei confronti, innanzitutto, di ciò che lui stesso produceva, dalla sua insoddisfazione perenne e dal senso di fallimento da cui mai si è affrancato. Giudicherà un errore la sua performance più famosa, Seedbed: “I really screwed up the piece”, dato che aveva finito con l’enfatizzare la figura di artista, cosa che detestava (si definirà infatti art-doer)  Klaus Biesenbach, che curerà la sua ultima mostra al MoMA PS1, risponde così a questa sua affermazione in un bellissimo video: “You screwed up the piece still you made the Art history Vito.” 

 

Personalità borderline, Acconci ha sempre combattuto l’immagine dell’ Artista-Mito anche quando questo voleva dire giocare contro se stesso.  “Rappresentava tutto ciò che odiavo… l’arte in quanto religione, gli artisti in quanto preti, l’arte in quanto altare. E ho cominciato a pensare che non solo il mio lavoro confermava questo, ma in realtà lo sottolineava. Dovevo dunque risolvere questo problema definitivamente.”

 

Ma sempre Biesenbach dirà: “Vito Acconci è l’artista che mi ha influenzato di più come curatore.”  
E credo di capire il senso di questa affermazione perché Vito, ogni volta, rimescolava le carte per cui quello che sembrava scontato, per lui non lo era affatto.
In fondo Vito Acconci è un’esperienza e come tale non esattamente definibile o descrivibile.
La storia dell’arte non restituisce del tutto quello che è stato, così come i libri non sono in grado di restituirci la sua straordinaria voce. Ma, per fortuna lo fanno le sue opere, in molte delle quali l’intervento vocale riveste un ruolo fondamentale.

 

Collision, Moviment, People, Public Space, Collaboration, tutte parole basilari nella pratica di Acconci, la cui personale visione (finanché utopica: Étienne-Louis Boullée, il visionario architetto delle opere mai realizzate, è tra coloro che lo hanno più influenzato insieme a Giovanni Battista Piranesi con le sue Carceri di Invenzione) racchiude qualcosa su cui non si è ancora sufficientemente indagato.
“Quello che veramente vorrei fare sono spazi in cui le persone, nel momento in cui li usufruiscono, li cambiano e dove siano coscienti di cambiarli. Mi piacerebbe intendere lo spazio come punto di inizio. Penso che in futuro l’architettura sarà così. Dove l’architetto mette in moto qualcosa e le persone iniziano ad essere importanti quanto l’architetto.”

 

Mobil Linear City,1991, Acconci Studio

 

Ho conosciuto Vito nel 2013: l’avevamo contattato perché mi ero posta l’obiettivo di mettere a confronto due artisti molto significativi e centrali nella storia dell’arte, la cui ricerca in un certo momento aveva indagato aspetti comuni, assecondando la sensazione che l’artista italiano, di base a Modena, fosse rimasto penalizzato a causa della sua località di nascita e di lavoro e necessitasse una ricollocazione.
Nasce così Intersection, una mostra di e con Vito Acconci e Franco Vaccari, in collaborazione con P420 e a cura di Valerio Dehò.
Contemporaneamente nelle altre sedi della galleria, di cui alcune temporanee, stavano lavorando David Tremlett con David Rickard, Nanni Balestrini, Antoni Muntadas e Sebastiano Mauri, coadiuvati dai curatori: Elena Forin, Rachele Ferrario, Martina Cavallarin.
Un momento irripetibile e indimenticabile.

 

Vito e Maria Acconci a Venezia, 2013

 

Ricordo innanzitutto lunghe serate su Skype con Matthew Attard e Deborah Rossetto insieme a me a Venezia e Vito e i suoi assistenti da Brooklyn. Interminabili conversazioni sulla complessità e la volontà di realizzare un progetto totalmente fuori controllo per i tempi a disposizione, i materiali da reperire, le opere da importare e i costi da contenere.
Questi i presupposti: impensabile esporre opere storiche (fini a se stesse) – ‘It could be a big mistake’ – e la paradossale presa di coscienza del fatto che Acconci detestasse i muri. Ma il dado era tratto e ormai eravamo entrati in quel loop per cui una mostra diventa una missione, se non un sogno. Appurato che Vito non amasse soffermarsi sul passato, abbiamo lavorato sul rileggere la sua storia con modalità nuove e attuali.
A Venezia arrivarono Vito con la futura moglie Maria e Brandt e Farzin, due architetti dello studio, e collaborarono con gli stagisti e gli assistenti della galleria, capitanati da Matthew Attard. La mostra fu costruita sul campo, si faceva e si disfava, si riprovava e si ridisfava.
Resta il segno di un’esperienza grandiosa. Il ricordo di lunghe notti con Vito che riposava qualche ora sul pavimento del palazzo e con i miei assistenti che nemmeno rientravano a casa per portare a termine l’allestimento: grandi e piccole vele sulla cui superficie si proiettavano film e video; modelli di architetture improbabili che scendevano dal soffitto rovesciati, in diagonale e solo alcuni nella loro posizione corretta; rivisitazioni delle opere installative più famose tra cui Where We are now (Who are we anyway?),1976, Movable floor e Decoy for birds and people,1979 e poesie della fine degli anni ‘60 proiettate sul soffitto.

 

Miart 2014, stand a cura di Vito Acconci / Acconci Studio

 

La collaborazione con la galleria è poi continuata con la realizzazione di uno stand monografico a Miart 2014 e un rapporto mantenuto fino alla fine.
Vorrei chiudere, come iniziato, con le sue parole, una sorta di statement che sta alla base della sua scelta di fondare uno studio che si occupasse di architettura.

 

I was obsessed with ideas like: “live by the sword, die by the sword”
One as a solo
Two as a couple or a mirror image
The third person starts an argument, is the beginning of a public 
So I started Acconci Studio

 

* Estrapolata da
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The early writings of Vito Acconci
Edito da Craig Dworking