ROMAN OPALKA

Hocquincourt, 1931 - 2011



"Vuoto a perdere: rigiro la bottiglia fra le mani, avrà pure un qualche significato!"

Fausto Melotti, in Linee

Il corpo del vuoto

Una contraddizione in termini. Il vuoto non è un concetto astratto, qualcosa di impalpabile che appartiene all’immaginazione prodotta dalle nostre cellule grigie; esso impegna fin da subito le nostre esistenze, dal momento in cui il primo vagito dal limbo del nulla ci fa precipitare nel divenire, a quello in cui dovremo rendere l’ultimo respiro. Il vuoto è Tempo, prima di tutto. Non il Cronos saturnino dei nostri orologi, che ne registrano l’inesorabile procedere come una conseguenza del moto eterno delle stelle, in un firmamento che col Mito ha occupato la fantasia dei nostri progenitori. Non quella “corrente che trascina via ogni cosa e subito la sostituisce”, il Potamos di Marco Aurelio. Il Tempo vuoto è qualcosa di più concreto e insieme più forte del ticchettio dei nostri orologi. Esso ha sempre un esito e procede a scatti imprevisti e definitivi: un fermo macchina, uno stop. Eraclito sosteneva che non si attraversa mai lo stesso fiume.
Il Vuoto è cosa, oggetto tangibile, corpo concreto. Non quello che la cultura dei nostri padri definiva con la formula “Valori plastici”, separandolo dal Tempo, ma Spazio a quattro dimensioni: altezza, lunghezza, larghezza e tempo, spazio percorribile, vivibile, esattamente come viviamo ciascuno il nostro altro, la persona che amiamo, che generiamo, che curiamo: nel tempo.
Difficile interessarsi al Vuoto in arte senza che il pensiero non cada subito su Fabio Mauri:“La Storia è un incubo da cui sto tentando di svegliarmi”(James Joyce) potrebbe essere l’emblema araldico di quest’artista: gli apparati rivestono sempre il loro potere di un’estetica raffinatissima, di tecnologie all’avanguardia ed esclusive: l’epoca scorre davanti ai nostri occhi con i feticci delle peggiori atrocità, gli oggetti le fissano per l’eternità, l’estetica è ancora potere, la stessa nostalgia è oppressione: il sogno di una potenza egemone che ha attraversato un secolo è nudo. Svanito quell’incubo se ne è sostituito un secondo: il piffero delle immagini che oggi attraversano l’etere in lungo e in largo ha decretato la fine del corpo: The end. E’ un vuoto che ci riguarda tutti.
In un celebre convegno a Roma alla Scuola della Garbatella, in cui il mondo dell’arte italiana incontrava il nuovo “sciamano”, un Beuys convinto che l’azione politica fosse ancora possibile, Mauri, con una domanda cruciale che cassava ogni illusione, gli ha opposto una linea: l’azione vera, risolutiva, effettuale, senza alcuna compromissione politica è attraverso il linguaggio: privare gli oggetti del loro valore estetico, svuotarli di ogni estetismo con diabolica attenzione è ancora linguaggio, precisione di linguaggio.
In questo senso, tra gli artisti della Galleria Michela Rizzo di Venezia abbiamo creduto opportuno scegliere coloro che a nostro avviso hanno lavorato da sempre sul vuoto, da angolazioni di ricerca diversi ma con la stessa precisione di linguaggio visivo.
Concludo le motivazioni che mi hanno spinto a proporre questa mostra alla Galleria Michela Rizzo ricordando che la proposta non può esaurirsi in una sequenza di immagini digitali ma, quando le circostanze lo permetteranno, aspira al corpo, allo spazio reale. In un momento come questo, in cui il pensiero debole ha fatto il Pieno (in senso figurato, ma anche oggettivo), c’è ancora molto lavoro
da fare. “La cattedrale dell’arte è costruita con le pietre delle eresie artistiche”(V. Sklowski): portiamo la nostra, e ci aspettiamo che altri, soprattutto giovani, ci aiutino a issarla. Siamo aperti.

FDL

Roman Opalka  (Abbeville-Saint-Lucien, 1931 – Roma, 2011) è stato un artista francese di origini polacche.

Come recita il Manifesto Effimero di Marcela Cernadas, “L’arte non ha principio né fine. L’arte è presente continuo (...)” così nè è conferma la ricerca artistica di Roman Opalka, grandissimo maestro polacco (1931-2011) che ha dedicato la propria esistenza al tempo e ha visto l’arte identificarsi con l’esistenza stessa. 

Nel 1965 ha inciso il primo Détails di un’opera che ben presto è diventata un vero elogio alla vita e allo scorrere del tempo: OPALKA 1965/1-∞. L’artista, su di una tela della stessa grandezza della porta del suo studio, segna una numerazione. Le cifre che la compongono sono bianche su sfondo grigio scuro, nette come la materialità terrena. 

Terminata la prima tela, la numerazione continua sulla tela successiva, di cui lo sfondo viene schiarito dell’1%, fino a diventare bianco su bianco con la sua ultima tela, numero 5 607 249. OPALKA 1965/1-∞ si compone quindi dell’Alfa e dell’Omega, la prima e l’ultima tela, e di tutte le altre tele che ha dipinto nel corso della sua vita; si compone della vicenda terrena di Opalka, come lui stesso definiva il suo lavoro.

In questo percorso durato oltre quarant’anni, la vita viene raccontata come una temporalità universale e, allo stesso tempo, relativa, poiché ogni tela ha rappresentato solo “l’impronta” di un momento dell’esistenza, “uno psicogramma”, come lo definiva l’artista.

La pratica artistica di Opalka ci fa riflettere sul valore universale del tempo, a cui l’uomo è sottomesso: “La vita è nel tempo e si sviluppa nell’intervallo tra la nascita e la morte. Per l’uomo, nascita e morte significano inizio e fine del tempo che è concesso”.