“Forse vincerai” è un’ipotesi o un augurio, o anche una sardonica professione di dubbio che relativizza ogni certezza rispetto agli umani successi. In forma di cartiglio spunta dalle briciole di un biscotto della fortuna di un ristorante cinese e per Ryts Monet innesca un confronto dialettico con le ossessioni della cultura contemporanea: la memoria, l’identità, la forma visibile delle cose e le ambiguità che ne nascono. Una delle contraddizioni più irrisolte delle civiltà riguarda l’investimento di senso nelle immagini: una iconofilia che talora degenera in fanatismo e che con l’avvento della riproducibilità tecnica ha originato una crisi rispetto alla determinazione della realtà effettiva. È l’ossessione del visibile, è l’equivoca fiducia nella rappresentazione del sé collettivo e individuale che si fonda sulla fragilità di un riconoscimento automatico e acritico in simboli ridotti a feticci, in figure degradate a semplice apparenza, e riguarda tanto la Storia del mondo quanto le storie personali. In questa prospettiva “la costruzione e la demolizione dei monumenti”, come scrive Gerard Raunig, “sono parte di uno stesso gioco”¹, rispettano la presunzione che la registrazione di un’immagine o la sua distruzione siano il punto supremo della certificazione dell’identità. Per questo motivo in alcuni luoghi i monumenti vengono fatti saltare in aria e altrove vengono replicati, riprodotti, imitati, come avviene per le effigi degli uomini politici e, su un’altra scale, per i ritratti dei protagonisti della nostra geografia sentimentale. Vanamente, nell’uno e nell’altro caso.
Ryts Monet si è concentrato in vari modi su questo tema nel corso della sua ricerca, isolando ogni volta fattori controversi del rapporto che l’uomo contemporaneo intreccia con il vasto panorama della produzione di immagini, delle iconografie del potere, dei miti dell’identità e della realizzazione personale sollecitati dal sistema consumista. Un altro dozzinale oracolo cinese (“You are going to find recognition”) diventa così la chiave per interpretare il rapporto tra una vecchia cartolina di Roma, con le tre colonne superstiti del Tempio dei Dioscuri, e la banconota da cinque dollari dove appare il Lincoln Memorial del 1922 a Washington, con le sue colonne che sono la citazione di una malintesa citazione neoclassica del mondo antico. L’artista descrive senza moralismi l’irrevocabile vocazione dell’umanità a contraffare i simboli, a distruggerli, a crearne di nuovi, e la sua disinvoltura nello scambiare la realtà con la sua rappresentazione. Tutto questo avviene con le dinamiche del consumo accelerato, in uno scenario dove il vecchio e il nuovo, l’autentico e i suoi scimmiottamenti giacciono nello stesso paesaggio di rovine avvolte in un moto continuo.
La serie Miracolo da 50 punti (presentato qui per la prima volta) di cui fa parte l’opera appena descritta (assieme ad altre tra cui Maybe you will win) è solo l’ultimo progetto dedicato al senso dell’umanità per i monumenti. All’origine si trova Sisters, del 2014, una serie di ottantotto immagini di copie della Statua della Libertà riprese in altrettanti luoghi (in mostra ne vengono presentate 22, tra cui anche quella della statua che si trova a Parigi, originaria, anche se non originale rispetto al colosso newyorchese). L’opera “sintetizza l’indifferenza in cui cade l’icona, in questo caso la controversa paladina delle libertà democratiche, spogliata di senso, dilatata e contratta come una serigrafia pop”², e traslata a ornare giardini privati, periferie anonime e centri commerciali.
Al centro ideale di questa attenzione si trova Lamassu, emblema del conflitto tra la furia iconoclasta dell’estremismo, che produce rovine di rovine, e la moltiplicazione del feticismo occidentale nei loro confronti. Lamassu è il nome di una divinità assira, un demone alato dal corpo di leone e dalla testa umana che spesso sovrintendeva benevolo gli ingressi dei palazzi e dei templi. Nel 2014 il millenario Lamassu della città di Nimrud in Iraq ha condiviso la sorte di distruzione di altre vestigia della civiltà mesopotamica, devastate dall’ISIS. Il frammento delle due zampe anteriori, è stato rilevato con una scansione 3D³. Le zampe artigliate di Lamassu, sono ora una malinconica “scultura dell’immagine di una scultura” che racconta il fatale ciclo di ascesa e caduta, di gloria e dissipazione di ogni cosa umana. E aggiunge un po’ di sconforto rispetto al progresso della civiltà e un po’ di cinismo riguardo all’ottimismo acefalo cui si ispira la tecnologia.
Quasi disposto ortogonalmente rispetto a questo percorso sui monumenti e la memoria si trova un’altra interpretazione delle contraddizioni del mondo. RIOT:, un’iscrizione in lettere dorate sulla vetrina dello spazio espositivo, racconta in sintesi un articolo di fisica sulla formazione dell’oro sul nostro pianeta. Il fatto che il simbolo dei conflitti e della protervia sia una presenza aliena, e la polisemia di ‘riot’ (disordine, protesta, sommossa), si connettono idealmente al video The Battle of Bijlmer (visibile solo la sera dell’inaugurazione). Una telecamera a circuito chiuso ha ripreso una competizione di freestyle-rap, organizzato tramite un bando aperto ai rapper del quartiere di Bijlmer, Amsterdam, dove convivono abitanti di 130 diverse nazionalità e solo il 30% è olandese. L’unico vincolo imposto ai partecipanti era quello di utilizzare ciascuno la propria lingua nativa durante la competizione: una nuova Torre di Babele che dai suburbi europei si congiunge ai panorami biblici della Mesopotamia, con l’origine della divisione degli uomini in una reciproca incomprensione.
Si torna dunque in Iraq, sulla linea di altre mitologie, e l’intera umanità appare alla fine indifesa al cospetto di se stessa, schiacciata dall’induzione di desideri e comportamenti in una diffusa atmosfera di sopraffazione, di violenza, di finzioni contrabbandate come realtà.
Per leggere la versione originale: http://www.drosteeffectmag.com/maybe-will-win-pietro-gagliano-ryts-monet/
¹ Gerald Raunig, Kunst und Revolution. Künstlerischer Aktivismus im langen 20. Jahrhundert, Vienna 2005 [ed. cons. Art and Revolution. Transversal Activism in the Long Twentieth Century, Semiotext(e), Los Angeles 2007, p. 108].
² Pietro Gaglianò, Memento. L’ossessione del visibile / The Obsession with the Visible, Postmedia Books, Milano 2016.
³ La scansione è stata realizzata nell’ambito del Virtual Museum of Iraq, un archivio multimediale on-line che raccoglie le principali opere e reperti presenti sul territorio iracheno. L’archivio è stato finanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano e realizz ato nei laboratori del Consiglio Nazionale delle Ricerche.